Domande frequenti

Qui trovi alcune risposte alle domande che ci vengono poste più spesso. Se stai vivendo una situazione simile o hai bisogno di capire meglio cosa fare, siamo qui per ascoltarti e aiutarti a trovare la soluzione più adatta a te.

Il nostro lavoro inizia dall’ascolto. Analizziamo la tua situazione con attenzione, valutiamo ogni aspetto e ti spieghiamo in modo semplice e trasparente cosa è possibile fare. Il nostro obiettivo è offrirti soluzioni concrete, su misura per te, e accompagnarti passo dopo passo, proteggendo i tuoi diritti e i tuoi interessi con serietà, competenza e umanità.

Il primo colloquio è gratuito. È un momento di ascolto e confronto, in cui ci racconti la tua situazione e insieme valutiamo come procedere. In modo totalmente trasparente, ti diremo se possiamo aiutarti, in che modo e con quali strumenti. Ti proporremo un preventivo chiaro e personalizzato, senza imprevisti, e sarai libero di scegliere se affidarti a noi.

Sappiamo quanto sia importante avere risposte in tempi rapidi. Di norma ti ricontattiamo entro uno o due giorni lavorativi. Se la tua richiesta è urgente, ti invitiamo a segnalarlo: faremo il possibile per darti priorità e organizzare un incontro o un confronto tempestivo.

No, non serve arrivare con tutti i documenti. Il primo incontro serve anche a chiarire cosa è davvero utile. Ti spiegheremo quali documenti possono essere necessari e, se ti manca qualcosa, ti aiuteremo a recuperarli senza stress e in tempo utile.

Sì, possiamo seguirti anche da remoto, via telefono o videochiamata. Molti dei nostri assistiti vivono in altre città o hanno impegni che rendono difficile venire in studio: per questo abbiamo strutturato un’assistenza a distanza completa, riservata e sicura, mantenendo la stessa attenzione e disponibilità.

Ci occupiamo di entrambe le cose. Spesso una buona consulenza fatta al momento giusto evita contenziosi o problemi futuri e maggiori spese. Siamo al tuo fianco anche per scrivere un contratto, gestire una trattativa, rispondere a una diffida o risolvere dubbi legali, senza dover necessariamente arrivare in tribunale.

Ogni situazione ha i suoi tempi, ma fin da subito cerchiamo di darti una stima realistica, spiegandoti tutte le fasi che potrebbero presentarsi e aggiornandoti costantemente. Lavoriamo sempre per semplificare i percorsi e ridurre le attese, mettendo al centro la tua serenità.

Il nostro studio assiste persone, famiglie, professionisti e imprese. Abbiamo competenze trasversali che ci permettono di offrire supporto sia su questioni personali che aziendali, con un approccio sempre attento e calibrato sulle specifiche esigenze di chi ci sceglie.

Ristrutturazione del debito

Se rifiuti di ricevere un atto giudiziario o non provvedi al suo ritiro presso l’ufficio postale entro i termini previsti, la tua omissione non impedisce che l’atto produca i suoi effetti legali. L’atto viene infatti messo a tua disposizione per dieci giorni. Se entro questo periodo non viene ritirato, la legge considera comunque perfezionata la notifica: si presume, cioè, che tu ne abbia avuto conoscenza, anche se non lo hai materialmente letto. Questo meccanismo serve a evitare che un comportamento omissivo possa bloccare il regolare svolgimento di un procedimento.

Tra gli atti giudiziari più comuni che possono esserti notificati rientrano, ad esempio, una citazione in giudizio per una causa civile, un decreto ingiuntivo con cui un creditore ti chiede formalmente il pagamento di un debito, un atto di pignoramento relativo all’avvio di un’esecuzione forzata, oppure un’intimazione di sfratto per morosità o per finita locazione. Puoi ricevere anche atti di precetto, sentenze o ordinanze del giudice, notifiche nell’ambito di procedimenti penali come un avviso di garanzia, convocazioni per interrogatori, o ancora comunicazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate, come cartelle esattoriali o atti di accertamento.

Questi atti possono esserti notificati tramite posta, con raccomandata e avviso di ricevimento, attraverso un ufficiale giudiziario oppure, in alcuni casi, via PEC, se sei un’impresa, un professionista o comunque un soggetto registrato in pubblici elenchi.

È importante sapere che ignorare o non ritirare un atto giudiziario non ti mette al riparo dalle sue conseguenze, anzi: potresti perdere la possibilità di esercitare il tuo diritto di difesa entro i termini stabiliti. Per questo, è sempre consigliabile affrontare tempestivamente qualsiasi comunicazione legale ricevuta.

Se percepisci una pensione di € 1.000 e non possiedi beni intestati, sei in una situazione in cui il rischio effettivo di pignoramento è molto limitato. La legge, infatti, tutela un importo minimo necessario per vivere: il cosiddetto “minimo vitale”. Attualmente, per le pensioni, tale soglia è fissata in 1.000 euro mensili (pari al doppio dell’importo massimo dell’assegno sociale).

Questo significa che l’importo della pensione fino a 1.000 euro non può essere pignorato. Solo l’eventuale eccedenza rispetto a questa soglia può essere aggredita, e comunque solo nei limiti di un quinto (ossia il 20%) per crediti ordinari.

È bene precisare che questa tutela vale solo per le pensioni, non per altri redditi (come stipendi, compensi professionali o rendite): su questi, i criteri di pignorabilità sono diversi e più flessibili, sebbene anche in quei casi esistano delle soglie minime impignorabili.

In primo luogo, è sempre opportuno verificare se l’imposta indicata nella cartella non sia già stata versata in passato. In tal caso, sarà possibile segnalare l’avvenuto pagamento all’Ente creditore o all’Agenzia delle Entrate-Riscossione, allegando la documentazione che lo prova, per ottenere lo sgravio della cartella.

Qualora, invece, il debito sia effettivamente dovuto, il contribuente ha tre principali opzioni:

  1. Opporsi alla cartella entro 60 giorni dalla notifica, qualora presenti vizi formali o sostanziali (come ad esempio mancanza di motivazione, errata intestazione, calcoli sbagliati o difetto di notifica). L’opposizione va proposta mediante ricorso giudiziale, con l’assistenza di un avvocato, presso l’autorità competente.
  2. Eccepire la prescrizione del credito. Se è trascorso troppo tempo tra la scadenza originaria del tributo e la notifica della cartella (generalmente 5 o 10 anni, a seconda della natura dell’imposta), il contribuente può sollevare un’eccezione di prescrizione, anche autonomamente.
    Attenzione: la sola anzianità del debito non è sufficiente per farlo considerare prescritto. Se la cartella è stata validamente notificata nei termini, anche molti anni fa, la prescrizione può essere interrotta e il credito resta esigibile.
  1. Richiedere la rateizzazione del debito, quando non si hanno fondati motivi per contestare la cartella. L’Agenzia delle Entrate-Riscossione consente, in via ordinaria, la rateizzazione fino a 72 mesi, e in caso di comprovate difficoltà economiche, una rateizzazione straordinaria fino a 120 mesi. È necessario presentare apposita istanza, anche online, indicando la propria situazione reddituale e patrimoniale.

Infine, è bene ricordare che l’inerzia o il ritardo nei pagamenti comportano un incremento costante del debito, per effetto di interessi di mora, sanzioni e costi di riscossione. Agire tempestivamente, anche solo per chiedere una sospensione o una verifica della cartella, è spesso decisivo per evitare aggravi economici difficilmente recuperabili.

La cartolarizzazione a valenza sociale di crediti ipotecari deteriorati, introdotta dalla Legge di Bilancio 2019 (Legge 30 dicembre 2018, n. 145) rappresenta una risposta innovativa ai problemi derivanti dalla vendita all’asta delle abitazioni e offre soluzioni più sostenibili ad alto impatto sociale.

Quando un debitore non è riuscito a pagare le rate del mutuo e non sa come evitare il pignoramento della sua casa può rivolgersi a un veicolo di cartolarizzazione a valenza sociale, formulando un’istanza apposita (richiesta di aiuto) per fare acquistare il suo debito dalla banca creditrice, estinguerlo cedendo la proprietà del suo immobile e mantenerne il possesso con un contratto di locazione.

Dipende dal tipo di obbligazione e da chi è il debitore.

Se si tratta di un mutuo cointestato, ciascun intestatario è responsabile per l’intero debito verso la banca. Questo significa che, anche se nella pratica ciascuno versa una parte della rata, la banca può chiedere l’intero importo a uno solo dei due se l’altro smette di pagare. In caso di inadempimento, la banca ha il diritto di agire sull’intero immobile dato in garanzia, anche se solo uno dei mutuatari è moroso. Il soggetto che continua a pagare regolarmente può poi agire nei confronti dell’altro per recuperare la sua quota.

Diversa è la situazione in cui l’immobile sia cointestato, ma il debito sia personale e riferibile solo a uno dei due proprietari. In questo caso, il creditore potrà agire solo sulla quota di proprietà del soggetto debitore. Tuttavia, la quota indivisa può essere pignorata e venduta all’asta, con il rischio che il comproprietario si ritrovi con un estraneo titolare di una parte dell’immobile. In alcuni casi, si può arrivare alla divisione giudiziale forzata e alla vendita dell’intero bene, anche se l’altro intestatario non ha alcun debito.

In entrambi i casi, è importante agire tempestivamente per tutelare i propri diritti e valutare eventuali soluzioni legali o negoziali.

Il pignoramento della casa è l’atto con cui il creditore, dopo aver ottenuto un titolo esecutivo (come un decreto ingiuntivo o un contratto di mutuo), chiede al tribunale di avviare la vendita forzata dell’immobile del debitore per soddisfare il proprio credito. Questa procedura può essere avviata non solo da una banca in caso di mutuo non pagato, ma anche da altri creditori, come finanziarie, condomìni o Agenzia delle Entrate, anche per debiti relativamente modesti.

La legge non pone una soglia minima assoluta per attivare il pignoramento della casa, ma nei fatti l’azione viene valutata sulla base della convenienza economica per il creditore. È fondamentale ricordare che anche debiti nati da cartelle esattoriali o fatture non saldate possono condurre, nel tempo, a un’esecuzione immobiliare.

Per tutelarsi, è possibile attivarsi con diversi strumenti – come opposizione, rateizzazione o saldo e stralcio – ma ognuna di queste soluzioni ha limiti applicativi e vincoli procedurali, che devono essere valutati caso per caso con l’assistenza di un legale. Una FAQ dedicata può aiutare ad approfondire meglio queste opzioni.

Quando un immobile viene venduto all’asta, spesso il ricavato è molto inferiore al valore reale di mercato. A ciò si aggiungono costi della procedura, spese legali, perizie, compensi del delegato alla vendita e interessi di mora accumulati nel tempo.

Questo significa che, anche dopo la vendita della casa, può restare un debito residuo a carico del debitore, che dovrà continuare a pagare. A questo si somma la permanenza della segnalazione nelle banche dati creditizie (come CRIF) e il rischio di ulteriori pignoramenti, ad esempio sullo stipendio, pensione o altri beni.

Ad esempio: un immobile del valore di mercato di €150.000 può essere venduto all’asta per €80.000, mentre il debito complessivo (tra capitale, interessi e costi) può ammontare a €120.000. Il debitore, pur avendo perso la casa, resta esposto per €40.000.

Sì. La legge non prevede tutele automatiche per il debitore sulla base della sua composizione familiare. La presenza di figli minori, soggetti disabili o anziani nell’abitazione non impedisce né sospende la procedura esecutiva. Tuttavia, in alcuni casi, queste circostanze possono essere valutate dal giudice in sede di richiesta di sospensione o di conversione del pignoramento, ma non costituiscono un impedimento legale alla vendita all’asta.

La conversione del pignoramento è uno strumento che consente al debitore di evitare la vendita forzata dell’immobile offrendo al giudice il pagamento graduale del debito. Per accedere a questa procedura è necessario:

  • presentare un’istanza al giudice;
  • versare almeno un sesto del debito complessivo (capitale, interessi, spese);
  • proporre un piano di pagamento del residuo in massimo 48 mesi.

Il giudice valuterà l’istanza e, se riterrà fondate le condizioni economiche del debitore, potrà autorizzare la conversione. Tuttavia, questa non è un diritto automatico, né sempre concessa, e non è sempre conveniente: richiede una disponibilità immediata di liquidità e il rispetto rigoroso del piano rateale approvato. In caso di mancato rispetto anche di una sola rata, la procedura esecutiva riprende.

Quando un soggetto non paga in modo regolare un debito (mutuo, prestito, carta di credito, leasing, ecc.), la banca o la finanziaria può segnalarlo ai Sistemi di Informazioni Creditizie (SIC), come CRIF o Experian.

La segnalazione comporta la classificazione del soggetto come cattivo pagatore, con la conseguente impossibilità di ottenere nuovi finanziamenti per diversi anni. Anche il semplice ritardo nel pagamento di due rate consecutive può essere sufficiente per attivare questa procedura.

La segnalazione può avvenire in caso di:

  • ritardi o mancati pagamenti di rate di mutui, prestiti, carte revolving;
  • sconfinamenti di conto corrente prolungati;
  • assegni scoperti;
  • inadempimenti verso finanziarie anche per importi contenuti.

Tuttavia, è possibile chiedere la cancellazione della segnalazione illegittima, dimostrando che il pagamento era regolare o che il debito non era dovuto.

Il decreto ingiuntivo è un provvedimento emesso dal giudice su richiesta del creditore, che intima al debitore di pagare una somma di denaro entro 40 giorni, pena l’esecuzione forzata.

Il creditore deve dimostrare il proprio credito allegando documentazione scritta (come fatture, contratti, estratti conto). Se il debitore non si oppone entro il termine, il decreto diventa esecutivo e può essere utilizzato per procedere con pignoramenti.

Se si riceve un decreto ingiuntivo è fondamentale:

  • non ignorarlo;
  • verificare la fondatezza del credito;
  • consultare un avvocato per valutare l’opportunità di proporre opposizione nei termini previsti;
  • in alternativa, valutare il pagamento o una transazione stragiudiziale.

Il saldo e stralcio è una forma di accordo transattivo tra debitore e creditore per chiudere il debito con il pagamento di una somma inferiore al totale dovuto.

Il debitore invia una proposta motivata (spesso assistito da un legale o da un intermediario), spiegando la propria situazione economica. Il creditore può accettare, rifiutare o negoziare condizioni diverse.

L’accordo raggiunto viene formalizzato per iscritto, specificando:

  • l’importo ridotto da versare;
  • le modalità e i tempi di pagamento (anche rateali);
  • la rinuncia del creditore a ogni altra pretesa una volta ricevuto il pagamento.

Attenzione: non è un diritto del debitore. Il creditore può legittimamente rifiutare la proposta. Inoltre, per essere efficace, l’accordo deve essere eseguito correttamente, altrimenti può tornare ad essere esigibile l’intero debito.

Il mancato pagamento di un mutuo, prestito personale, carta di credito o altro prodotto finanziario comporta conseguenze progressive:

  • Dopo 30 giorni: maturano interessi di mora e si è considerati “morosi”.
  • Dopo 60 giorni o due rate non pagate: può scattare la segnalazione nei SIC come cattivo pagatore.
  • Dopo 180 giorni o più di 6 rate non pagate (anche non consecutive): il creditore può risolvere il contratto e richiedere l’intero debito residuo in un’unica soluzione.
  • Fase esecutiva: se il debitore non salda, la banca o la finanziaria può avviare un’azione giudiziaria per decreto ingiuntivo, seguita da pignoramento di stipendio, pensione, conto corrente o casa.

È fondamentale non sottovalutare neanche i debiti di modesto importo: nel tempo, interessi, spese e azioni legali possono trasformarli in esposizioni ben più gravi.

È opportuno verificare le tue posizioni in tutte le centrali rischi con largo anticipo (almeno 6 mesi prima di chiedere il mutuo). Se risulta ancora qualcosa di negativo, valuta il da farsi:

  • Se è vicino alla scadenza dei termini (es. mancano pochi mesi alla cancellazione automatica), magari conviene attenderequalche mese e presentarsi con report puliti.
  • Se è un errore, contestalo e fallo correggereprima di fare domanda.
  • Se è corretto ma datato e intanto hai ricostruito il merito (es. dopo quel ritardo hai 2 anni di pagamenti regolari altrove), preparati a spiegare la situazione all’istituto e porta documenti che provano che ormai sei affidabile (contratto di lavoro stabile, ecc.). Alcune banche hanno politiche meno rigide e possono accettare mutui anche con piccoli intoppi passati, specie se giustificati (es. “ho avuto 2 ritardi 3 anni fa perché perso lavoro, ma ora tutto ok”).

 Sì, come trattato in dettaglio, hai diritto al risarcimento di tutti i danni subiti:

  • Danno patrimoniale: ad esempio il maggior costo dei finanziamenti ottenuti nonostante la segnalazione, le occasioni di credito perse (se dimostri ad es. che non hai ottenuto un mutuo e hai dovuto rivolgersi a finanziatori più costosi), eventuali perdite subite perché senza credito hai dovuto cessare un’attività lucrosa.
  • Danno non patrimoniale: stress, ansia, lesione della reputazione, dell’immagine di onorabilità e solvibilità. Pensa ad un imprenditore noto in piazza il cui nome compare come insolvente: l’immagine ne patisce.
    Questi danni vanno richiesti preferibilmente in sede giudiziale civile (l’Arbitro Bancario può riconoscere piccole somme, ma per grandi danni serve il tribunale). Abbiamo visto che servono prove, anche presuntive: è utile raccogliere qualsiasi evidenza (lettere di rifiuto, testimonianze, articoli di giornale se capitasse, ecc.). Molti hanno ottenuto risarcimenti anche importanti. Ad esempio, Cass. 3133/2020 ha aperto all’uso delle presunzioni e ha fatto capire che se eri un imprenditore affidabile e vieni bollato come cattivo pagatore ingiustamente, è logico che hai subito un danno nella tua capacità di fare affari.

In sostanza sì, puoi e devi chiedere i danni se hai avuto conseguenze. Il calcolo non è matematico ma basato su equità e circostanze.

In Centrale Rischi, sì: se un garante presta fideiussione, nelle segnalazioni figura tra i coobbligati. Se il debitore principale finisce a sofferenza, la banca di solito – dopo aver escusso il garante – classifica a sofferenza anche la posizione del garante (dovendo informarlo anch’egli). Nei SIC privati, dipende: solitamente segnalano il titolare del contratto. Il garante persona fisica non è registrato se non quando effettivamente chiamato a pagare e inadempiente a sua volta. Quindi il garante appare:

  • In CR: sicuramente, come posizione “garanzie prestate” e poi potenzialmente come insolvente se non paga.
  • In CRIF: se aveva firmato il contratto di finanziamento come coobbligato solidale, allora sì appare. Se parliamo di un mero garante, alcuni sistemi creditizi potrebbero non registrarlo fino a eventuale escussione. In ogni caso, se il garante paga al posto del debitore, la sua segnalazione verrà poi aggiornata a pagato (ma resta traccia che si è dovuto escuterlo).

Sì, assolutamente. Anzi, succede normalmente. Le politiche di rischio delle banche prevedono quasi sempre di non erogare nuovi crediti a chi ha segnalazioni negative in corso. Anche un solo ritardo recente potrebbe portare a un rifiuto, figurarsi una sofferenza. Non c’è un obbligo per la banca di concedere credito; quindi, se dal CRIF risultano situazioni negative, può legittimamente rifiutare o proporre condizioni peggiori (tasso più alto, richiesta di garanzie).

L’unico tuo diritto è che se la decisione di rifiuto del credito è basata su informazioni di un database (ad esempio CRIF), la banca dovrebbe informarti di ciò e del tuo diritto di rettifica (lo prevede la normativa sul credito al consumo e il GDPR sulla profilazione). 

Sì, ai fini delle valutazioni future, se la segnalazione non appare più, per i nuovi finanziatori è come se quell’evento non fosse mai (ufficialmente) esistito. Occorre però distinguere:

  • Se è cancellazione per decorrenza dei termini, i sistemi semplicemente non mostreranno più quell’informazione (anche se può essere stata archiviata internamente). Quindi la tua “scheda” che vedrà la banca sarà priva di note negative (a meno di altre in corso).
  • Se è cancellazione anticipata (ad esempio disposta dal Garante o ABF per illegittimità), il sistema creditizio di solito elimina proprio il record o lo rettifica in neutro. Anche la Centrale Rischi, se una banca rettifica, rimuove/aggiorna gli archivi (nel senso che se una sofferenza era sbagliata, la banca la riclassifica e nelle nuove visure quell’importo comparirà come regolarizzato o sparirà).

In entrambi i casi, futuri creditori non vedranno nulla di quel trascorso.

In caso di errore (purtroppo accade, scambi di persona, pagamenti non registrati, ecc.), devi subito contestare per iscritto alla banca e al gestore del SIC l’inesattezza e chiedere la correzione/cancellazione. Allegando prove (ricevute, contabili). La banca è tenuta per legge a correggere e inviare rettifica. Se fanno orecchie da mercante, puoi rivolgerti:

  • Al Garante Privacy, perché detenere dati inesatti è violazione dell’art. 5 GDPR (esattezza dei dati).
  • All’ABF per far dichiarare l’errore e ottenere anche un indennizzo per i disagi.
  • Al limite, in tribunale con urgenza, perché un dato falso diffuso è un danno grave (pensiamo a chi è pulito ma appare insolvente).
    Gli errori materiali di solito vengono risolti rapidamente.

Tieni presente che hai diritto anche al risarcimento di eventuali danni subiti a causa dell’errore (ad esempio, se ti hanno rifiutato un mutuo per quell’errore).

Se la segnalazione è corretta e recente, generalmente no, devi attendere i tempi standard di conservazione.

Non esiste un diritto a cancellazione immediata “a pagamento avvenuto”. Nella Centrale Rischi pubblica, appena paghi la banca dal mese successivo smette di segnalare quel debito, ma la traccia storica rimane consultabile per 36 mesi.

Pagare è sempre opportuno perché il tuo status viene aggiornato a “regolarizzato” (che i futuri creditori valutano meglio di “non pagato”), ma i dati non spariscono subito. In qualche caso, la banca per politica commerciale può richiedere al sistema creditizio la cancellazione immediata quando il cliente salda, ma è una concessione discrezionale, non un obbligo. Se però ritieni che la segnalazione fosse già errata o illegittima, pagando hai comunque titolo di chiedere l’immediata cancellazione perché a quel punto il mantenimento sarebbe ingiustificato.

Dipende dal tipo di problema e dal sistema:

  • Per CRIF/Experian/CTC: un ritardo di poche rate poi sanato resta 12 o 24 mesi dalla data in cui hai pagato l’arretrato. Un finanziamento mai rimborsato (insoluto) resta 36 mesi (3 anni) dalla fine del rapporto o ultimo aggiornamento, e comunque al massimo 5 anni dalla scadenza contrattuale. Dopo tali periodi la segnalazione negativa viene rimossa automaticamente. Le informazioni positive (pagamenti regolari) rimangono 5 anni dalla chiusura.
  • Per la Centrale Rischi Banca d’Italia: una volta che regolarizzi il debito o scendi sotto soglia, la banca smette di segnalarti e dopo 36 mesi quella vicenda non sarà più visibile agli altri.

Quindi massimo 36 mesi una volta chiusa la posizione. Se la posizione non è chiusa ed il tuo debito è ancora esistente, continuerai ad essere segnalato; le banche dati private come CRIF/Experian smettono di segnalare dopo 5 anni, mentre la CR pubblica continua finché non definisci il debito.

Dipende. Se sei un consumatore (ad esempio, hai un prestito personale, una carta di credito, un finanziamento finalizzato) la legge (art. 125 TUB) prevede che tu sia informato per iscritto almeno 15 giorni prima di inviare la prima segnalazione negativa a una banca dati. Questo ti darebbe modo di rimediare. Se la banca non lo fa e ti segnala lo stesso, la segnalazione è irregolare e potrai chiederne la cancellazione per vizio di procedura.

Invece, se sei un’impresa o un soggetto non consumatore, la normativa non impone un preavviso legale (tranne che devi comunque essere avvisato se ti classificano a sofferenza, ma l’avviso può anche essere contestuale o successivo).

Ristrutturazioni aziendali e procedure concorsuali

La composizione negoziata della crisi d’impresa è uno strumento introdotto dal D.L. n. 118/2021 per aiutare le imprese in difficoltà economico-finanziaria a ristrutturarsi e tornare in equilibrio.

È pensata per aziende che, pur trovandosi in una situazione di squilibrio patrimoniale o finanziario, conservano potenzialità di continuità aziendale.

La CNC non è una procedura concorsuale.

L’impresa continua a essere gestita dall’imprenditore e le trattative si svolgono in modo riservato e stragiudiziale, salvo che il debitore richieda:

  • misure protettive contro le azioni esecutive dei creditori,
  • autorizzazioni del Tribunale (es. per la concessione di finanziamenti prededucibili, la cessione d’azienda, ecc.).

Se le trattative non portano a una soluzione condivisa con i creditori, l’imprenditore può:

  • accedere a strumenti di ristrutturazione o liquidazione previsti dalla legge (es. concordato preventivo o liquidazione giudiziale),
  • o ricorrere al concordato semplificato, pensato per le situazioni più compromesse.

La ristrutturazione aziendale diventa necessaria quando emergono criticità ricorrenti nelle operations, che segnalano un deterioramento della capacità produttiva e gestionale dell’impresa.

I principali segnali da monitorare attentamente includono:

  • la riduzione progressiva della produttività, misurata attraverso i KPI di settore, indica inefficienze nei processi produttivi e si traduce in costi unitari crescenti e in tempi di consegna dilatati rispetto agli standard di mercato;
  • la dipendenza eccessiva da singoli fornitori o l’assenza di piani alternativi espone l’azienda a rischi significativi;
  • l’obsolescenza tecnologica degli impianti produttivi comporta limitazioni competitive sempre più rilevanti nel medio periodo.

Un’impresa è in crisi quando non riesce a far fronte regolarmente alle proprie obbligazioni o è prevedibile che non vi riuscirà nel prossimo futuro. Il Codice della Crisi definisce la crisi come lo stato di difficoltà economico-finanziaria che rende probabile l’insolvenza, e impone all’imprenditore l’obbligo di attivarsi per prevenirla.

Sì. Secondo il Codice della Crisi, l’imprenditore ha il dovere di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati, in grado di rilevare tempestivamente segnali di crisi. Inoltre, vi sono obblighi di segnalazione da parte di organi di controllo, revisori e creditori qualificati (come l’Agenzia delle Entrate, INPS e Agenzia Riscossione) se l’impresa non reagisce agli allarmi interni.

Il Codice mette a disposizione diversi strumenti, tra cui:

  • Composizione negoziata per la soluzione della crisi, una procedura volontaria, riservata e stragiudiziale, attivabile con l’ausilio di un esperto indipendente.
  • Accordi di ristrutturazione e piani attestati di risanamento, utili per riorganizzare i debiti in accordo con i creditori.
  • Concordato semplificato per la liquidazione del patrimonio, per una chiusura ordinata e meno onerosa.
  • Liquidazione giudiziale, la procedura che ha sostituito il vecchio fallimento.

È uno strumento di allerta non giudiziale, volontario e riservato, previsto dal Codice per favorire il risanamento dell’impresa. L’imprenditore può attivarlo tramite la piattaforma nazionale messa a disposizione da Unioncamere, e viene affiancato da un esperto terzo e indipendente che lo aiuta a negoziare con creditori, banche e stakeholder. È pensata per intervenire prima che sia troppo tardi.

Il rischio principale è quello di aggravare la posizione debitoria e arrivare a una liquidazione giudiziale (ex fallimento), perdendo il controllo dell’impresa. Inoltre, l’amministratore può essere chiamato a rispondere personalmente per aver omesso di adottare tempestivamente misure adeguate, anche sotto il profilo civilistico e penale.

Sì, se si interviene in tempo. Il Codice promuove una gestione anticipata e ordinata delle difficoltà. Con il supporto di professionisti esperti, è possibile negoziare con i creditori, riorganizzare l’azienda, ridurre l’esposizione e persino accedere a strumenti come il concordato semplificato, che consente la chiusura dell’impresa senza procedure contenziose e con costi ridotti.

Tutti gli imprenditori commerciali e agricoli, anche individuali, purché non abbiano già una procedura aperta. Possono accedervi anche start-up, PMI e imprese innovative, con procedure personalizzabili in base alla dimensione e alla complessità dell’attività.

Recupero crediti

Essendo una cambiale scaduta un titolo esecutivo a norma di legge (articolo n°63 del Regio Decreto 1669/33) è sufficiente per notificare un atto di precetto al debitore, che gli intimi il pagamento di quanto dovuto. Qualora l’insolvenza dovesse protrarsi ulteriormente rispetto ai termini di 10 giorni dalla notifica dell’atto, si avvierebbe il percorso verso il pignoramento dei beni del debitore finalizzato al totale recupero del credito vantato.

Le tempistiche della fase stragiudiziale possono variare in funzione del caso specifico e in base allo sviluppo di passaggi necessari con il verificarsi di particolari situazioni, tra tutte si sottolinea l’eventuale irreperibilità del debitore.

Entro e non oltre 40 giorni dalla data del perfezionamento della notifica di un decreto ingiuntivo, prima cioè che scadano i suoi termini, il debitore ha diritto di opporsi in sede giudiziaria attraverso un atto di citazione, come disposto dall’articolo 645 del Codice di Procedura Civile. Seguirà, quindi, un procedimento ordinario.

Il precetto di pagamento è un atto attraverso il quale il creditore notifica al debitore la scadenza definitiva dei termini (10 giorni) per adempiere all’obbligo di pagamento. Precede l’esecuzione forzata e può essere notificato quando il creditore vanta un titolo esecutivo.

Una procedura di recupero crediti può essere attivata indistintamente sia nei confronti di un’impresa che di un privato. La Società mette a disposizione un team dedicato e altamente specializzato nelle diverse aree di riferimento.

Separazione e divorzio consensuale

Con la separazione, i coniugi vengono autorizzati a vivere separatamente e si affievoliscono i doveri matrimoniali; ma rimangono marito e moglie, con tutte le conseguenze che da questo derivano (la principale, oltre all’impossibilità di risposarsi con un’altra persona, riguarda la materia ereditaria).

Con il divorzio, invece, i coniugi non sono più tali, cioè non sono più marito e moglie: tra di loro cessano completamente anche tutti i doveri connessi al matrimonio (salvo l’eventuale obbligo di mantenimento).

Esistono tre tipi di separazione:

  1. la separazione consensuale;
  2. la separazione giudiziale;
  3. la separazione con negoziazione assistita.

Le prime due si svolgono in Tribunale.

  1. NELLA SEPARAZIONE CONSENSUALE: I coniugi si accordano non solo per la decisione di separarsi, ma anche per ogni aspetto della separazione (l’importo di un eventuale assegno di mantenimento per un coniuge, l’importo per l’assegno di mantenimento di eventuali figli, la collocazione dei figli e le modalità di visita, l’assegnazione della casa ed altri eventuali aspetti patrimoniali). Tutte le condizioni dell’accordo vengono scritte in un ricorso, che viene poi depositato presso il Tribunale, il quale omologa la separazione. Molto spesso, non è nemmeno necessario presentarsi in Tribunale per l’udienza, dato che ormai molti Tribunali non ritengono più necessaria la comparizione dei coniugi per il tentativo di conciliazione e per la lettura delle condizioni della separazione. La separazione consensuale è certamente preferibile rispetto a quella giudiziale, perché si basa sull’accordo fra i coniugi, anziché essere decisa dal Tribunale; oltre a essere più rapida e meno costosa. In questo tipo di separazione c’è la possibilità che entrambi i coniugi siano assistiti da un solo avvocato, che ha l’obbligo di tutelare entrambi e soprattutto gli eventuali figli.
  2. NELLA SEPARAZIONE GIUDIZIALE: I coniugi non hanno trovato un accordo con il quale regolamentare la fine del loro matrimonio e pertanto uno dei coniugi deposita in Tribunale un ricorso per ottenere comunque la separazione. Alla prima udienza il giudice decide i «provvedimenti temporanei ed urgenti», autorizzando i coniugi a vivere separati e decidendo provvisoriamente riguardo all’assegnazione della casa coniugale, all’affidamento dei figli e agli assegni di mantenimento. Si tratta, per l’appunto, di provvedimenti temporanei che potranno comunque subire una modifica nel corso del procedimento: il quale proseguirà, come una vera e propria causa, che terminerà con una sentenza (la quale conterrà i provvedimenti definitivi; salva la possibilità di presentare appello). Essendo, appunto, una causa, ciascun coniuge sarà difeso dal suo avvocato.
  3. NELLA SEPARAZIONE CON NEGOZIAZIONE ASSISTITA: I coniugi, tramite i loro avvocati (quindi occorrono due avvocati), raggiungono un accordo che viene stilato per iscritto e depositato sia presso la Procura della Repubblica, sia presso il Comune.

Sì: fino a quando non è stata emessa la sentenza, i coniugi, nel caso in cui trovino un accordo, possono chiedere al Tribunale di trasformare la separazione da giudiziale in consensuale. Il Tribunale fisserà una apposita udienza e verificherà soprattutto che le condizioni della separazione concordate fra i coniugi rispondano all’interesse dei figli.

La separazione può essere «addebitata» ad uno dei coniugi se costui o costei non abbia rispettato uno più doveri coniugali e se il mancato rispetto di uno o più di tali doveri abbia causato l’intollerabilità della convivenza. Alcuni esempi: violazione dell’obbligo di contribuire ai bisogni della famiglia, dovuto alla volontà di non lavorare; rifiuto protratto di avere rapporti sessuali; comportamento sprezzante ed insensibile nei confronti di un coniuge gravemente malato; rifiuto di trovarsi un lavoro continuativo che potesse contribuire al sostentamento della famiglia; eccessiva tirchieria di uno dei coniugi, tale da far venir meno la contribuzione ai bisogni della famiglia; oppure, all’opposto, l’eccessiva prodigalità (tendenza allo shopping compulsivo o a spese futili), tale da sottrarre denaro ai bisogni della famiglia o addirittura ai risparmi o ai redditi dei familiari. Se la separazione viene addebitata a uno dei coniugi, gli effetti sono esclusivamente economici, perché il coniuge ritenuto responsabile della fine del matrimonio: non avrà diritto ad alcun assegno di mantenimento (ma solo eventualmente al c.d. assegno alimentare); perderà i diritti di successione ereditaria nei confronti dell’altro coniuge; perderà il diritto a percepire la pensione di reversibilità e il T.F.R. (tranne nel caso in cui percepisca l’assegno alimentare.

Il figlio minorenne ha il diritto di essere ascoltato dal Giudice in tutte le questioni che lo riguardano, qualora abbia compiuto i 12 anni, o anche se più piccolo ed abbia capacità di discernimento. È bene precisare che, per prassi, nelle separazioni consensuali i figli non vengono mai ascoltati. Il Giudice invece decide spesso di ascoltare i figli nei casi di separazioni giudiziali in cui c’è contrasto fra i genitori in merito all’affidamento dei figli o alle modalità di visita. Il ragazzo, in questi casi, viene ascoltato direttamente dal Giudice oppure, di solito, da suoi ausiliari/esperti (psicologi), in un ambiente protetto e confacente al minore: quindi, raramente in un’aula del tribunale, bensì in un luogo diverso (a volte anche a casa del minore stesso).

Il primo e principale criterio per decidere chi continuerà ad abitare nella casa familiare è l’esistenza di figli minorenni o di figli maggiorenni non economicamente autosufficienti. Infatti, quando ci sono figli minorenni, oppure maggiorenni ma non autosufficienti dal punto di vista economico, il Giudice assegna la casa familiare al genitore collocatario (o affidatario) degli stessi. Il coniuge a cui verrà riconosciuto il diritto di vivere con i figli nella casa familiare, sarà obbligato all’uso esclusivamente personale dell’abitazione, senza la possibilità di utilizzarla in modo diverso o di cederla a terzi (per esempio, non potrà affittarla o prestarla ad altre persone). Il coniuge assegnatario dell’abitazione subentrerà in tutti i diritti e doveri inerenti l’utilizzo della casa: ad esempio, il pagamento delle spese condominiali e delle utenze (elettricità, gas, telefono), la manutenzione ordinaria, ecc. L’assegnazione della casa familiare verrà meno (e potrà perciò essere revocata) se e quando cesseranno i presupposti che l’avevano resa legittima: cioè, in pratica, quando i figli diventeranno maggiorenni e saranno economicamente indipendenti. Oppure, se il coniuge al quale è stata assegnata la casa inizierà una nuova convivenza stabile con un altro partner. Se invece non ci sono figli, il Giudice non potrà decidere sull’assegnazione della casa. Questa rimarrà quindi al coniuge proprietario per l’intero o per la maggioranza.

La separazione autorizza i coniugi a vivere separatamente; ma, se cambiano idea e desiderano riconciliarsi, possono tornare a vivere insieme, con comportamenti concludenti (cioè semplicemente tornando ad abitare insieme come marito e moglie) oppure con una dichiarazione presso l’Ufficiale di Stato Civile dove risulta iscritto o trascritto l’atto di matrimonio. In caso di ripresa della convivenza, però, cesseranno di decorrere i termini per poter chiedere il divorzio e, se la riconciliazione fallisce, dovrà essere chiesta una nuova separazione, soprattutto se si intende divorziare. Il divorzio si ottiene solo su richiesta di uno o di entrambi i coniugi già separati. Infatti, tranne che in casi particolari e ristretti, per poter divorziare occorre che ci sia già stata la separazione e che sia trascorso il tempo previsto dalla legge: se la separazione è stata consensuale, il divorzio può essere chiesto dopo 6 mesi dall’udienza presidenziale; se la separazione è stata giudiziale, il divorzio può essere chiesto dopo 1 anno dall’udienza presidenziale; se la separazione è stata raggiunta con una negoziazione assistita, il divorzio può essere chiesto dopo 6 mesi dalla data certificata dell’accordo di separazione; se la separazione è avvenuta davanti l’Ufficiale di Stato civile, il divorzio può essere chiesto dopo 6 mesi dalla data dell’atto contenente l’accordo di separazione raggiunto davanti a lui.

Diritto del lavoro

Il contratto a tempo determinato è valido quando è stipulato per esigenze temporanee e può avere una durata complessiva, comprensiva di proroghe e rinnovi, fino a un massimo di 24 mesi tra le stesse parti.

Trascorso questo limite, il rapporto può essere considerato a tempo indeterminato.

Un contratto a termine può essere considerato nullo se:

  • supera i 24 mesi complessivi di durata
  • viene prorogato oltre il numero massimo consentito dalla legge
  • manca il rispetto dei termini tra un contratto e l’altro
  • dopo i primi 12 mesi non viene indicata una causale valida, ove richiesta.

In questi casi, il lavoratore può chiedere la trasformazione del contratto a tempo indeterminato e il risarcimento del danno.

Se il contratto è nullo o irregolare, il lavoratore può rivolgersi a un avvocato per ottenere:

  • la stabilizzazione del rapporto a tempo indeterminato
  • il risarcimento del danno, se ne ricorrono i presupposti.

È importante verificare che la lettera indichi chiaramente i motivi del licenziamento e rispetti i termini di preavviso.

Se si ritiene il licenziamento ingiustificato o discriminatorio, va impugnato entro 60 giorni, preferibilmente con il supporto di un legale specializzato in diritto del lavoro.

Il lavoratore ha 60 giorni di tempo dalla ricezione della lettera per impugnare il licenziamento.

Decorso tale termine, decade il diritto ad agire.

Il demansionamento, cioè l’assegnazione a mansioni inferiori rispetto a quelle per le quali si è stati assunti, è generalmente vietato, salvo eccezioni previste dalla legge (es. riorganizzazione aziendale). In assenza di una motivazione legittima, è possibile chiedere:

  • il ripristino delle mansioni originarie
  • il risarcimento del danno subito

Il lavoratore ha diritto a ricevere quanto dovuto nei termini contrattuali. In caso di ritardo o mancato pagamento, può:

  • inviare una diffida formale al datore di lavoro
  • avviare un’azione legale per recuperare le somme (es. decreto ingiuntivo o causa davanti al Giudice del lavoro)

Il Trattamento di Fine Rapporto (TFR) spetta alla fine del rapporto lavorativo, sia in caso di licenziamento, dimissioni o pensionamento.

È possibile chiederlo in anticipo solo in determinati casi, come:

  • acquisto della prima casa di abitazione
  • spese mediche importanti
  • almeno otto anni di servizio continuativo

Le dimissioni per giusta causa sono ammesse quando il datore di lavoro assume comportamenti gravi, come:

  • mancato pagamento dello stipendio
  • molestie o condizioni insostenibili
  • modifiche unilaterali del contratto

In questo caso non è necessario rispettare il preavviso e si può richiedere l’indennità di disoccupazione (Naspi).

Sì. In caso di infortunio sul lavoro, il lavoratore ha diritto:

  • all’indennizzo da parte dell’INAIL
  • al danno differenziale se l’infortunio è causato da negligenze o violazioni delle norme di sicurezza da parte del datore di lavoro.