Il divorzio in Italia è stato introdotto con la Legge n. 898/1970 e riformato nel 2015 con la Legge n. 55, che ha istituito il cosiddetto divorzio breve. Da allora, è possibile sciogliere il vincolo matrimoniale:
- Dopo 12 mesi di separazione giudiziale, oppure
 - Dopo 6 mesi se la separazione è consensuale.
 
Tra gli effetti principali del divorzio vi è la cessazione dei doveri coniugali (fedeltà, coabitazione, assistenza morale e materiale). Tuttavia, in alcuni casi resta un dovere di solidarietà economica verso il coniuge economicamente più debole: da qui nasce l’assegno di mantenimento, o più correttamente, l’assegno divorzile.
L’art. 5 della Legge sul divorzio stabilisce che il giudice può imporre a uno dei coniugi di versare periodicamente una somma all’altro, se quest’ultimo non ha mezzi economici adeguati o non può procurarseli per motivi oggettivi.
Nel decidere se concedere l’assegno, il tribunale valuta:
- le condizioni economiche di entrambi i coniugi;
 - le ragioni che hanno portato al divorzio;
 - il contributo di ciascuno alla vita familiare e al patrimonio comune;
 - la durata del matrimonio e l’età del coniuge richiedente.
 
Nel 2017 la Cassazione (sent. n. 11504/2017) ha stabilito un principio importante:
Il tenore di vita goduto durante il matrimonio non è più il parametro centrale per concedere l’assegno di mantenimento.
In altre parole, con il divorzio cessa anche il vincolo economico tra i coniugi: l’assegno può essere riconosciuto solo se chi lo richiede non è economicamente autosufficiente e non può diventarlo per cause oggettive.
Nel 2018 le Sezioni Unite della Cassazione (sent. n. 18287/2018) hanno confermato questo orientamento, integrandolo con una funzione compensativa e perequativa: il giudice deve anche considerare se il coniuge richiedente ha sacrificato opportunità lavorative o patrimoniali per la famiglia.
Per quanto riguarda l’obbligo di mantenere i figli vale questo per tutti, sia in caso di matrimonio che di convivenza. L’art. 30 della Costituzione e l’art. 316-bis del Codice Civile stabiliscono che i genitori devono contribuire al mantenimento in base alle loro possibilità economiche e lavorative.
Dopo il divorzio, il genitore non collocatario deve versare un assegno mensile a favore dei figli. Questo vale anche per i figli maggiorenni non ancora autosufficienti, ma solo se:
- stanno completando il percorso di studi con impegno;
 - sono attivamente alla ricerca di un’occupazione adeguata;
 - non si trovano in una situazione di inerzia ingiustificata.
 
Se, invece, il figlio maggiorenne è in età adulta e non lavora senza motivo valido, il genitore può chiedere la revoca dell’assegno di mantenimento (Cass. civ., n. 31564/2024).
La mancata corresponsione dell’assegno di mantenimento può comportare responsabilità penale, ma è importante distinguere due diverse ipotesi:
- Art. 570 c.p.: punisce chi fa mancare i mezzi di sussistenza a figli minori, coniuge o genitori.
 - Art. 570-bis c.p.: punisce chi non versa le somme stabilite dal giudice civile in sede di separazione o divorzio, anche se non viene meno del tutto ai mezzi di sussistenza.
 
La differenza è che l’art. 570 riguarda casi più gravi, legati alla sopravvivenza, mentre il 570-bis punisce il mancato rispetto di una sentenza civile.
Vale la pena precisare che, essere disoccupati non esonera automaticamente dagli obblighi: l’obbligato deve dimostrare di essere in stato di indigenza reale, ovvero nella concreta impossibilità di adempiere, anche solo in parte.